Testimonianza di Cristina

Racconto iniziato il 22 ottobre 2001

Sono vissuta in una casa di campagna con i miei genitori, mio fratello, lo zio e i nonni. Avevamo tante bestioline, mucche, maiali, conigli, galline, oche, cani e qualche campo e un bosco; la casa con due cucine di fronte l’una all’altra, sopra avevamo le camere da letto (in tutto quattro). Al terzo piano c’era il granaio. Mi ricordo della stanza dei nonni, che dormivano in letti separati di una piazza e mezza, lo saltavo sul letto della nonna che era così morbido e che aveva due materassi, quello sotto era di foglie di pan­nocchie e quello sopra era di piume di gallina; aveva anche un bel piumi­no, sempre di piume di gallina, così alto e morbido! I pavimenti erano di legno non trattato e si pulivano con la spazzola dura e la varechina. Mi ricordo bene che aveva sul mobile una scarpetta di porcellana così bella e piccola, di colore nero fuori e dentro rossa. Aveva anche, sul davanti, pic­cole rose dipinte. Quando salivo nella sua stanza, la mettevo per terra e la provavo, ma il mio piede era un po’ grande. Pensavo che un giorno il mio piedino potesse rimpicciolirsi. (Era il pensiero di una bambina di quattro anni).

Ogni tanto salivo nel granaio, avevo un po’ di paura, perché c’era quel­la porta di legno che per aprirla ero costretta a spingerla con le spalle. Mi tenevo stretta al passamano per non cadere giù dalle scale, perché erano ripide. Aprivo quella porta piano, piano e mi guardavo intorno: c’erano file di pannocchie appese sul soffitto, per terra il mucchio di chicchi di grano e attrezzi vari. Avevano teso alcune reti larghe per mettere ad appassire “americano” bianco o nero (l’uva). C’erano due armadi e un mobile pieni di vestiti, riviste, giornali. Mio nonno teneva tutto!! Pile di “Grand Hotel” che lui leggeva sempre.

Il gabinetto era fuori della casa, a parte. Il water era tutto di legno col coperchio, come una pentola. C’era una vaschetta rettangolare di pietra. Il bisnonno aveva tirato un tubo per l’acqua del lavandino improvvisato! Durante l’inverno in camera veniva portata la tinozza di legno per fare II bagno davanti alla stufa.

D’estate, invece, fuori avevamo due vasche in pietra dove lavavamo la biancheria (una era per sciacquare) e lì facevamo il bagno con aggiunta di pentola d’acqua calda. Era un gran divertimento!

Una sera, dopo cena, ero andata nella cucina dei nonni e mi ero sedu­ta sulla tavola, parlavo con loro; lo zio, che alle volte esagerava nel bere qualche bicchiere in più, è entrato improvvisamente dalla porta, ho pensa­to: “vado via!”, ma non ho fatto in tempo. Mia nonna si è messa a parlare con lui, e improvvisamente si è scagliato contro di lei brandendo una for­chetta, e con una forza incredibile l’ha piantato sul naso della nonna. Il nonno a gridato: “Vai fuori di qui! Sei ubriaco!”, lo mi sono buttata giù dalla tavola e lo zio l’ha ribaltata tutta apparecchiata: piatti che volavano, il bot­tiglione del vino spanto, bicchieri rotti, il minestrone sul pavimento. Allora sono andata dal papà piangendo e lui è accorso a cercare di calmare le acque, ma con pochi risultati.

A parte questo momento di terrore, per me la tavola dei nonni era bel­lissima: lunga, tutta di legno, veniva pulita con la spazzola quadra con acqua e sapone, veniva asciugata con lo straccio; tra le fessure delle varie assi che formavano il piano rimaneva lo sporco e lei minuziosamente puli­va tutto e io a guardare. La tavola per il pranzo e la cena veniva apparec­chiata a metà, ecco perché io potevo salire sull’altra metà e da lì osservare tutte le mosse dei miei nonni dall’alto! La cucina dei nonni era accogliente, c’erano anche la televisione in bianco e nero e il divano dove io mi rannic­chiavo.
Avevo iniziato la scuola elementare per imparare a leggere, scrivere e fare di conto. A casa dovevo fare i compiti, lo ho un fratello che ha tre anni più di me. Allora dicevo: “Roberto, sai come si fanno queste operazioni?”. E lui, convinto di spiegarmi, eseguiva i miei compiti mentre io guardavo fuori della finestra e volavo con la mia fantasia. Allora lui mi richiamava all’attenzione; ma i compiti erano già stati fatti da lui. Un buon risultato, ero molto soddisfatta! Dopo un mese circa, stufo di farmi i compiti, mio fratello ha detto a mia madre cosa succedeva. La mamma allora mi ha prima sgri­data a voce e poi ha aggiunto due sberle nel sedere per farmi capire bene che i compiti dovevo farli io. Ho pianto e da quel giorno ho cominciato a fare i compiti da sola, malvolentieri, costretta!
Vi parlo dei miei genitori. Mio padre era a lavorare in Comune, era da una vita lì, prima come guardia comunale e dopo come becchino; inoltre puliva le strade, controllava le fogne.

Mi viene in mente un episodio: era caldo, potevo avere circa sette anni, mi ha portato con lui a lavorare perché non si fidava a lasciarmi sola a casa. Mi ha detto: “Oggi devo andare nel cimitero per riesumare la salma di una donna che è lì da più di cinquantanni”. Arrivati lì davanti alla lapide, si è messo a scavare con la pala e io lì a guardare con curiosità e con un senso di paura. La cassa era completamente consumata e si vedeva lo scheletro intatto e composto e il papà mi ha detto: “Guarda Cristina. Guarda come siamo!”. Quella donna aveva due anelli, una catenina e gli orecchini d’oro. Quello che mi ha colpito, è stato vedere che gli orecchini erano caduti per terra e quindi ho capito che le orecchie non sono fatte d’ossa….

Il papà aveva portato con sé due cassette: una di legno per le ossa e un’altra piccola di ferro per raccogliere eventuali oggetti lasciati nella bara. Posava le ossa come se ci fosse ancora la persona, con grandissimo rispet­to, puliva i vari pezzi e li deponeva delicatamente nella cassetta di legno.

lo non ho sentito “odore di morte”: la mia paura era quella! Ero tran­quilla, vedevo il papà nella buca e ricordo che verso di lui ho provato molto affetto e stima. Pensavo poi alla persona morta che era passata dalla terra alla cassetta dove forse stava più “calda”. Poi il papà si è messo a pulire gli oggetti d’oro con l’alcool per poi riporli nella cassettina di ferro che viene consegnata ai familiari della salma. A questo punto mi sono offerta per aiutare il papà perché sapevo pulire, a casa aiutavo la mamma, quindi mi sono sentita efficiente, pronta a dare una mano! Il papà però mi ha detto di stare tranquilla, che faceva lui ed io ho capito che era compito suo, io ero solo spettatrice. Mentre finiva il suo lavoro, sono arrivati i nipoti della defunta insieme al prete e così tutti siamo andati a depositare la cassetta delle ossa in una colombaia, il papà ha chiuso la cassette con la piccola lapide. Poi siamo ritornati nella tomba perché lui doveva finire il lavoro.

E’ stata una bella esperienza di vita, ero contenta! Mi ha fatto crescere un po’. Il papà, quando è andato in pensione, ha ricevuto dal Sindaco la medaglia d’oro e un attestato in cui c’è scritto: “Al Signor Valentino Rino Dri quale doveroso riconoscimento per il servizio prestato”, lo sono molto orgo­gliosa del mio papà. Dovevano passare ancora dodici anni di vita insieme  poi il papà ci ha lasciati a causa di un tumore.

Invece la storia della mamma è questa. Ha lavorato in un istituto per per­sone cieche vicino a Tricesimo. Ha iniziato quando io avevo otto anni. Face­va i turni, una settimana al mattino e una settimana al pomeriggio. Aveva la divisa di un bel colore rosa con il colletto bianco e un grembiulino bian­co con il pizzo. Era bellissima, mi piaceva tanto. Peccato che le persone cie­che non potessero vederla! Per due giorni stava in cucina ad aiutare la cuoca ad apparecchiare i tavoli, altri due giorni li dedicava alla pulizia delle camere, gli ultimi due erano adibiti per le pulizie generali delle sale.

Andava al lavoro in bicicletta, con il bello ed il brutto tempo; se pioveva troppo era costretta ad andare a piedi. Nei pomeriggi senza pioggia o freddo andavo attraverso i campi fino all’istituto e l’aspettavo; le facevo una sorpresa, lei era molto contenta, mi faceva salire sul portapacchi, lo ero feli­ce, tornavamo a casa insieme, chiacchierando, raccontandoci ciò che ave­vamo fatto entrambe fino a quel momento. Aiutavo la mamma nei lavori di casa, per lavare i piatti salivo sulla sedia, era un bel divertimento!

Ora è Elisa, la mia bimba, che sale sullo scagnetto per lavare i piatti, e vedendola mi tornano in mente tutti i ricordi della mia infanzia.

Nel sottoscala della casa dei miei genitori c’era una piccola stanza soprannominata “la cucina sporca”, che però non era sporca.

L’aggettivo significava di “disbrigo”: infatti, lì c’era un lavello di pietra, di forma rettangolare, con vari colori dal rossiccio al giallo al bianco al grigio… una specie di granito. Il rubinetto stava sul muro a sinistra. C’era molto spa­zio per lavare verdure, carni, eccetera. Ricordo l’acqua gelida…. Le stoviglie venivano lavate in una bacinella con l’acqua calda, poi venivano deposte sopra il piano del lavello e sullo scolapiatti di ferro a più ripiani, insieme alle pentole. I ripiani ricavati sotto il lavello erano nascosti da una tendina a fiori colorati. Lì veniva lasciata la “cjaldèrie” (paiolo) della polenta piena d’acqua affinché si ammorbidissero le croste attaccate. C’era una piccola finestrella con le grate di ferro, senza serramenti, perché passasse l’aria. Uno scaffale a ripiani arrivava fino al soffitto, anche lui protetto da una tendina a fiori colorati, lì venivano messe tutte le stoviglie in ordine, pulite e brillanti. Que­sto era il cucinino di tutta la casa. Anche la nonna lo usava perché c’era l’ac­qua corrente. Dove mangiavamo si trovava solo la tavola con le sedie, un mobiletto, il frigorifero e si cucinava sul fornello a gas o sulla cucina eco­nomica che serviva anche per scaldare la stanza.

Aiutavo la mamma nelle faccende di casa, mi sentivo utile. Lei l’ho sem­pre vista lavorare di continuo, o in casa o al lavoro o nei campi, nell’orto o ad accudire le bestie, e senza mai ricevere un ringraziamento o della grati­tudine. Mi piaceva starle vicino quando stirava perché avevamo tempo per parlarci, e annusavo il profumo della biancheria stirata. Quando faceva da mangiare, salivo sulla sedia per poter vedere meglio e lei mi spiegava come si prepara il sugo, la carne eccetera. Così ho imparato dalla mamma a fare da mangiare. Qualche volta la cena veniva preparata anche con il mio aiuto e io mi sentivo importante! La mamma era bravissima perché sapeva valorizzarmi e diceva al papà: “Sai che è stata Cristina a preparare la cena? E’ buona?”. E lui rispondeva: “”Brava! Sei proprio una brava bambina. Così ti voglio”.

Questi insegnamenti li ho messi a frutto con la mia piccola, perché penso che sia molto importante gratificare i bimbi e non solo sottolineare gli errori che commettono.

Avevo tredici anni quando ho conosciuto Maria, una signora sfortunata fisicamente perché aveva la gobba. Questa menomazione l’aveva portata a chiudersi nel suo mondo che corrispondeva alla stanza da letto in cui faceva tutto: dipingeva quadri, decorava piatti, lavorava all’uncinetto e, proprio per il mio interesse nel vederle fare questo lavoro, sono diventata sua amica, mi ha insegnato a fare bei lavoretti. La differenza d’età era note­vole, aveva quarantanni, lo l’ho subito considerata una cara persona e mi sono affezionata a lei. Pensavo che soffrisse della sua situazione e deside­ravo darle un aiuto, l’uncinetto è stato il mezzo che ci ha unite! Ripensan­do ora, dopo la mia esperienza di vita, a questa situazione, capisco ancor meglio quanto importante sia dare affetto a chi ne ha bisogno!

Fuori dall’istituto per i ciechi dove lavorava mia madre, c’era quasi sem­pre un gatto tigrato che si chiamava Leone, pesava undici chili a detta del custode… Camminava pesante con le zampe schiacciate dal suo peso, lo lo accarezzavo e lui faceva le fusa. I ciechi lo viziavano con vari bocconcini e lui ingrassava, ingrassava… Ricordo il salone d’entrata dell’istituto con due meravigliosi lampadari che pensavo fossero di diamanti, visto quanto brillavano.

Quando avevo dodici anni, insieme a tutti i bambini del paese giocava­mo in piazza davanti alla chiesa. Un giorno, un cugino di mio padre che aveva molti campi, aveva messo il carro vicino al muretto di sassi, lo e Ste­fano siamo immediatamente saliti sul carro di legno per giocare. Ad un certo punto Stefano ha incominciato a spingermi per farmi cadere e ride­va, rideva… lo non ci ho visto più, e ho pensato: “Adesso ti frego io!”. Lui si era messo sul bordo del carro a pancia in giù. Ho approfittato di questa cosa e in un baleno l’ho preso per i piedi e con una forza inaspettata sono riuscita a farlo penzolare dal carro. La sua faccia è finita nelle ortiche che facevano da bordura al muretto! Immediatamente la reazione delle ortiche sul suo viso ha fatto effetto, e lui si è messo a piangere e urlare dalla rabbia mentre lo ritiravo sul carro. E’ scappato via gridandomi: “mi vendicherò!”. Ero soddisfatta di aver vinto, ma un po’ mi dispiaceva per le conseguenze delle ortiche sul viso di Stefano, non avevo previsto questa punizione… è stato il caso.

Da piccola devo dire che ero una peste e mia figlia Elisa, ora, mi asso­miglia. Per quattro giorni non ho rivisto Stefano. Quando l’ho incontrato restava sulle sue, non mi veniva vicino, allora io gli ho chiesto scusa; ma da quel giorno non è più venuto sul carro a giocare con me.

Frequentavo la classe quarta elementare, la mia maestra aveva nella sua classe anche suo figlio, Luca, nostro compagno. Poteva essere l’inizio della primavera. Arriviamo a scuola un giorno come un altro, ma la maestra è assente. Arriva il direttore insieme alla supplente. Ci ha raccontato l’acca­duto: Luca non c’è più, è stato travolto da una moto mentre seguiva una gara di motocross. Il primo lutto della mia vita. Era morto un caro compa­gno di scuola della mia stessa età. A dieci anni non si pensa alla morte, non si può immaginare che un bimbo di dieci anni possa morire. È stato un grande dolore condiviso da tutti noi bambini e dai genitori, il funerale è stato commovente, avevamo tutti un fiore bianco da deporre sulla sua bara bianca. Nel momento della sepoltura siamo tutti scoppiati in lacrime perché ci siamo resi conto che Luca non lo avremmo più rivisto e se ne andava sotto la terra, solo.

Ho un ricordo molto bello della maestra, mamma di Luca, che è stata tanto vicina a noi dopo la disgrazia, non c’era bisogno che parlasse di Luca, sentivamo tutti la sua mancanza, le stavamo vicino con affetto, non servi­vano parole per confortarla.

Finita la scuola d’obbligo, avevo quattordici anni, il papà mi ha chiesto se per l’estate avevo voglia di lavorare presso la pasticceria di un suo amico. L’idea mi è piaciuta, siamo andati a parlare da Romano, il padrone della pasticceria. Dopo una settimana ho iniziato il lavoro, e siccome il posto dis­tava circa sette chilometri da casa mia era il papà a portarmi con la mac­china. Anche lui lavorava nello stesso Comune, così ogni mattina partiva­mo insieme e ritornavamo a casa insieme. Ho un brutto ricordo del primo giorno di lavoro perché dovevo arrabattarmi con delle pentole enormi e non riuscivo a muoverle facilmente. Pensavo, come farò? Ho deciso di rima­nere a lavorare lì, mi divertivo di più che a fare i compiti. Dotata di biciclet­ta Graziella di seconda mano, potevo essere più libera nei movimenti e non pesare sul papà che aveva orari diversi.

Col sole tutto bene! Pedalavo molto! Se pioveva prendevo la corriera. Dopo un anno di guadagni ho potuto comprarmi il motorino Garelli, e con quello ho risolto le mie pene. Veloce come un razzo e autonoma! Anche se pioveva non desistevo, non abbandonavo il mio compagno. Descrivo il mio abbigliamento in caso di pioggia: impermeabile verde scuro a due pezzi, pantaloni, giacca con cerniera e cappuccio, guanti, sciarpa di lana, berretto sotto il cappuccio e stivaloni di gomma. Poteva diluviare che io ero a posto. Ricordo però il fastidio della pioggia che mi arrivava sul viso. Per fortuna que­sto disagio è durato poco perché il papà ha subito provveduto a regalarmi un bel parabrezza che mi difendeva dalle intemperie. Dovevano passare nove anni perché potessi viaggiare con la mia bellissima Fiat 500 bianca decapottabile di seconda mano!

A me piace fare scherzi, e così sull’auto mi divertivo a lampeggiare agli altri autisti nei posti dove poteva fermare la polizia per eccesso di velocità, ma la polizia non c’era e vedevo tutti che frenavano…

Una sera, andando a mangiare una pizza con i colleghi di lavoro, avevo a bordo Pietro, un ragazzino di sedici anni, e lui, siccome piovigginava, ha aperto la capote ed ha usato l’ombrello per proteggerci dalla pioggia. Era­vamo a Udine, in centro, come due “matti”!

All’inizio del mio lavoro pulivo e mettevo a posto tutti gli attrezzi che ser­vivano in pasticceria. Dopo circa sei mesi ho incominciato a fare le prime paste, erano le feste di Natale. Ero molto contenta e soddisfatta di vedere uscire dalle mie mani tanti dolci belli e buoni. La decorazione di torte alla frutta e di paste era la mia passione perché potevo sbizzarrirmi a creare tanti fiori, tanti colori ben assortiti. Dopo un anno d’apprendistato, ero in grado di fare qualsiasi leccornia. Il mio lavoro mi piaceva, e anche con i colleghi stavo bene, era un ambiente familiare.

Sto volentieri in compagnia d’amici e da ragazza uscivamo insieme o al cinema o alle sagre nei paesi vicini e si rideva spensierati. Erano tempi belli, la famosa gioventù. Era l’ultimo dell’anno 1989, io avevo ventisei anni, fini­to il lavoro tra paste, dolci e panettoni sono andata a salutare una cara amica che gestiva un bar per farle gli auguri di buon anno. Sono entrata e, seduto sul seggiolino alto davanti al bancone, ho visto un ragazzo che subito mi ha colpito e incuriosito. Il viso era coperto da una barba folta e ben curata, i capelli castani e un po’ lunghi, gli occhi marrone chiaro, molto vispi. Ci siamo guardati. Ho osservato come muoveva la gamba nervosa­mente e mi ha fatto subito simpatia, mi ricordo ancora i vestiti che indos­sava: un paio di blue jeans, un maglione col collo alto marrone e un giub-bino di blue jeans foderato di pelo bianco. Entrando nel bar ho salutato tutti: “Buonasera!”. Mi sono seduta al banco per parlare con i miei amici e lui mi ha chiesto se poteva offrirmi qualcosa da bere. Mi ha fatto piacere ricevere questa sua attenzione e così è iniziata la nostra amicizia. Per il veglione serale avevamo organizzato una festa in casa di un amico e così ho invitato a partecipare anche lui; purtroppo non è potuto venire perché era già impegnato con sua sorella. Ci siamo scambiati gli auguri di buon anno e io da quel momento non vedevo l’ora di rivederlo. Passati quindici giorni, li contavo…, ci siamo incontrati di nuovo e, sorpresa, l’ho visto insie­me ai miei amici, e ho capito che voleva inserirsi nel gruppo; forse pensa­va a me? In pochissimo tempo ci siamo scambiati tutte le informazioni pos­sibili sulla nostra vita, sui nostri movimenti, ma io sapevo che lui si era già informato su di me e ne ero lusingata. Siccome lavorava lontano, ci vede­vamo raramente, ma tutte le volte possibili. Durante l’estate, in occasione di una grigliata, è accaduto quello che da tanto tempo entrambi volevamo: amarci!

Dovevano passare ancora tre anni felici per giungere al matrimonio, nella primavera del 1992. Una festa bellissima con tanti amici allegri, con tutti i parenti che ci coccolavano e io e lui che vivevamo come in un sogno. Poi siamo partiti per la Toscana, un viaggio di nozze meraviglioso. La nostra Elisa l’abbiamo voluta subito e siamo stati esauditi. Alla nascita di Elisa avevo vicino mio marito che mi è stato di molto conforto e ha partecipato a tutto il travaglio in sintonia con me, una gioia immensa a vedere nostra figlia! Avevamo deciso che alla sua nascita mi sarei dedicata a lei, e quindi mi sono licenziata dal lavoro. Nello stesso periodo, purtroppo, mio papà stava male e poter vedere la sua prima nipotina lo ha riempito di felicità. Ci ha lasciati quasi un anno dopo la nascita di Elisa.

Mi piaceva molto fare la “mamma alle prime armi”, ora sono espertissi­ma! Durante i primi quattro mesi di vita Elisa ci ha fatto dormire poco…Ricordo ancora i turni forzati tra me e mio marito. Per fortuna, cre­scendo, si è regolata il sonno e quindi ci siamo rilassati! Tutte queste espe­rienze hanno rafforzato il nostro rapporto familiare. Ricordo quando mi ha lasciato la manina per fare i primi passi da sola, aveva una tutina a fiorellini colorati e le scarpette rosse, io mi sono commossa. Mangiava gli spaghetti seduta sul seggiolone, eravamo in adorazione nel vederla trafficare per por­tarsi la pasta in bocca e il sugo della pasta le pitturava tutta la faccia. Quan­do era sazia, girava il piatto con dentro il mangiare rimasto ed era “pasto concluso”. Elisa cresceva bene, iniziava a parlare con nostra grande soddi­sfazione e divertimento. I quattro anni di Elisa li abbiamo festeggiati come sempre in famiglia.

Un mese dopo, un infarto cerebrale mi ha colpito.

Da quel momento la mia vita è cambiata.

30 marzo 1997

Mi sveglio e mi accorgo che la gamba destra e il braccio destro non li posso muovere. Cerco di alzarmi e non ce la faccio. Voglio chiedere aiuto, gridare per farmi sentire da mio marito che era già in cucina, ma niente da fare…

Poiché non arrivavo in cucina, mio marito è venuto in camera per vede­re se mi ero riaddormentata. Ha capito subito che qualcosa non andava bene, avevo la bocca storta e non riuscivo a rispondergli. Ha chiamato immediatamente il 118. La nostra bambina si era avvicinata a me e, veden­do l’agitazione del papà, si è messa a piangere e io non potevo fare niente!

Mi hanno trasportata all’ospedale, in neurologia, dove mi hanno visita­ta. Mi ricordo che c’era una dottoressa, io ero insieme a mio marito e lei ha detto: “La signora capisce, ma non può parlare, è afasica e emiplegica destra”.

Io seguivo il discorso e capivo.

Sono rimasta ricoverata per un mese e tutto il personale che mi seguiva, i medici, gli infermieri, i familiari, gli amici avevano il loro da fare per poter interpretare i miei desideri… Con alcuni riuscivo a comunicare meglio, spe­cialmente con un’infermiera. Capiva quasi sempre i miei gesti e aveva tanta pazienza. Altri non mi davano nessuno spazio. Avevano premura, non mi lasciavano il tempo di esprimermi, parlavano troppo velocemente.

La mia situazione era tragica, lo capivo quello che mi domandavano ma non potevo rispondere, rimanevo bloccata. L’idea era nella mia testa, ma non riuscivo a esprimerla con le parole.

Mi curavano il fisico ma non dicevano niente per spiegarmi cosa mi stava accadendo nella mente; perché non potevo più parlare?

Ero completamente sola con i miei pensieri. Avrei voluto tanto avere qualcuno che mi spiegasse cosa mi stava accadendo. Da sola non ne veni­vo fuori. Questa situazione di incomunicabilità mi portava a deprimermi sempre di più, piangevo di continuo e la mia testa era confusa, come se avessi un puzzle da comporre, senza riuscirci mai!

Ai miei familiari nessuno dava informazioni adeguate.

Da soli hanno dovuto inventare come trattarmi. Non sapevano quanto capivo: se non parlavo era perché mi comportavo da “cattiva” oppure per­ché non potevo fare diversamente? Un consiglio per la verità l’hanno dato: “Provate a farla scrivere su una lavagnetta! O con la penna o con le lette­re”. Mio marito, solerte, pieno di speranza, subito mi porta la lavagnetta con un pennarello e tutte le lettere dell’alfabeto, tridimensionali e con la calamita, nell’eventualità che io non riuscissi a scrivere con la mano sinistra.

Quando è arrivato nella stanza con tutto questo materiale, io sono rima­sta sorpresa. Ricordo di aver pensato: “Ah bene! Adesso scriverò quello che non riesco a dire!”. Ero entusiasta di questa idea. Ho subito cercato di scri­vere con la mano sinistra pensando che probabilmente avrei scritto male, ma a me interessava il contenuto, poter dire per iscritto il mio pensiero.

Immediatamente mi sono resa conto che non potevo scrivere, perché l’idea che avevo in testa non si traduceva in parole da poter essere scritte. A mio marito, che sperava finalmente di aver trovato la soluzione per comu­nicare di nuovo con me, è caduto il mondo. Si è reso conto che non pote­vo nemmeno scrivere. Ha cercato di aiutarmi dicendomi: “Scrivi quello che ti viene in mente”. Ho scritto il nome di Elisa, correttamente. Lui subito mi ha raccontato di lei, che stava bene, che andava all’asilo. Poi ho fatto la mia firma in stampatello, il nome e cognome di mio marito e lui mi ha avverti­ta che avevo fatto un errore e insieme lo abbiamo corretto. Non avevo ancora avuto occasione di leggere. Appena ho avuto in mano una rivista, mi sono resa conto che riuscivo a leggere a mente e comprendevo ciò che leggevo, ma mi era impossibile leggere a voce alta, non mi usciva nessun suono dalla bocca.

Dovevano passare circa quindici giorni dal mio ricovero perché acca­desse che finalmente risentissi la mia voce. Mi trovavo in bagno, la mamma aspettava fuori dalla porta, necessità urgente: non c’è carta. Il panico mi assale, mi esce improvvisamente la parola “mamma”! Mi sono meravigliata nel sentire la mia voce e ho avuto un attimo di felicità. La mamma mi ha abbracciata. Da quel momento ho cercato di sforzarmi per ridire alcuni “mamma”, niente da fare…

Altra settimana di silenzio completo.

Una mattina, ero sola in camera, pensavo intensamente alla mia bambi­na e, senza accorgermi, mi è uscito il suo nome: Elisa.

Immediatamente ho cercato di ripeterlo, per non perderlo. Ci riuscivo, le lacrime mi scendevano a frotte. Ancora tre ore di lunga attesa e finalmen­te arrivano la mamma e mio fratello, all’ora di pranzo, lo mi concentro e con i gesti mi faccio capire che li voglio seduti di fronte a me e attenti! Otte­nuto questo ho detto a voce alta “Elisa!”. Tutti commossi. Dieci minuti dopo è arrivato mio marito, stessa scena, lo da quel momento ho sperato di poter guarire.

Era circa un mese che stavo ricoverata in neurologia. Il desiderio di riab­bracciare mia figlia era immenso. Vedo Elisa, lo mi trovavo in carrozzella ed ero molto preoccupata per lei, che reazione avrebbe avuto nel vedermi così? Non avrei potuto parlarle… Appena mi ha vista si è fermata, poi è venuta a sedersi sulle mie ginocchia e ha chiesto se le imprestavo la carrozzella perché voleva farci un: un bel divertimento!

Ero felice perché avevo visto che, essendo così piccola, non capiva la gravità della situazione. Mi sono sentita incoraggiata a darmi da fare per superare al più presto le mie difficoltà e angosce in modo tale che, nel momento in cui lei avrebbe potuto capire di più, io sarei stata bene.

Trasferita in un altro ospedale ho iniziato la riabilitazione motoria e del linguaggio. Ricordo di essere stata trasportata con la carrozzella in un ambulatorio dove c’erano tre persone. Ero accompagnata da mia nipote di sedici anni, sono entrata nella stanza insieme a lei; sapevo che dovevano farmi un esame per la parola. C’era una scrivania, mi hanno messo di fron­te all’esaminatore, gli altri due assistevano all’esame in silenzio, seduti in parte. Dietro a me hanno fatto sedere mia nipote che aveva chiesto di rima­nermi accanto. Per prima cosa mi viene data una matita e un foglio sul quale dovevo scrivere il mio nome (l’ho scritto in stampatello). Poi sono stati disposti davanti a me dei cerchi e dei quadrati, grandi e piccoli di diversi colori, e sono incominciati gli ordini da eseguire. Mi sentivo agitata, avevo paura di sbagliare, di fare brutta figura. Ho chiesto con gli occhi di ripeter­mi la domanda e mi è stato detto di stare attenta perché non avrebbero potuto più ripetermi l’ordine: era un test!

Allora io mi sono ancora più emozionata e spaventata e le lacrime mi scendevano sulle guance. Finita questa prova dovevo ripetere le frasi che mi venivano dette. Ricordo l’ultima ripetizione: ” il ferro da stiro a vapore”. Naturalmente io non riuscivo a ripetere nulla. Ciò che mi usciva dalle lab­bra era solo “no”. Capivo che i miei errori venivano segnati con un meno, i più erano rarissimi! Ero scoraggiata! A un certo punto mia nipote interviene dicendomi: “Zia, non dire sempre di no!”. Voleva aiutarmi, io sono scop­piata in lacrime! L’esaminatore mi ha detto di calmarmi e quando ha ripre­so le “prove” si è rivolto ai due assistenti dicendo loro: “Vedete che non capi­sce niente!”, lo sono diventata di marmo e mi sono chiusa in me stessa. Mi sono state poste davanti delle targhette in plastica con scritte parole per essere ordinate da me in frasi. Ho eseguito il compito facilmente. Si sono resi conto che io comprendevo ciò che era scritto e allora l’atteggiamento nei miei confronti è subito cambiato. L’esaminatore si è complimentato con me dicendomi: “Brava!!!”, e mi ha dato l’appuntamento per l’indomani alle ore dieci per iniziare la “scuola”.

Mi sentivo avvilita perché mi sembrava che non mi avessero capita; temevo di dover riaffrontare una nuova umiliazione. Stando insieme, ho capito che cercavano di mettermi a mio agio, non come il primo giorno e ciò mi ha tranquillizzata. Così ho iniziato a rispondere alle domande su ciò che vedevo disegnato (scenette di vita eccetera) e piano, piano anche a scrivere parole, a leggere, a dire. A me sembrava di essere ritornata a scuo­la e di essere una scolara incapace. I miei errori erano segnati e corretti dal “maestro”. Non capivo come mai non potevo esprimermi e perché facevo così tanti errori. Eseguivo molti “compiti” ma non mi spiegavano il perché dei miei errori, lo pensavo di essere tornata una bambina e di dover impa­rare di nuovo a parlare, ma mi rendevo conto che sapevo tutto dentro di me, pensavo come prima. Perché cercavano di insegnarmi le parole che già sapevo? Non riuscivo ad usarle! Quando mi servivano non venivano fuori, ma le sapevo!!

Mi mancava un dialogo con chi era di fronte a me, desideravo comuni­care, non mi serviva copiare, leggere, scrivere sempre le stesse cose, fare esercizi scolastici. Sentivo il bisogno di avere qualcosa di più.

Stavo bene con le signore che dividevano con me la stanza dell’ospedale perché con loro ricevevo un vero aiuto. Comunicavo i miei sentimenti e par­tecipavo ai loro discorsi.

La logopedia era invece solamente un esercitarmi in attività di scrittura e lettura. Mi mancava completamente il dialogo.

Per un mese e mezzo ho fatto questa “scuola” e quando mi hanno dimessa mi è stato dato l’ordine di continuare da sola per un mese a fare “esercizi”. Poi ho continuato per circa un anno a frequentare questo servi­zio per tre volte alla settimana.

Per mia fortuna avevo mia figlia Elisa, di quattro anni, che mi obbligava a parlare con lei e io facevo di tutto per non deluderla. Passavamo il tempo giocando con le sue figurine che rappresentavano varie categorie di ani­mali, persone, eccetera.

Lei chiedeva continuamente cos’è? cosa fa? chi è? come tutti i bambini della sua età e quindi ero stimolata a rispondere e ho incominciato a espri­mermi sempre di più.

Grazie Elisa!

La mia vita era completamente cambiata. I rapporti con mio marito non erano più quelli, non riuscivo a farmi capire, non potevo esprimergli tutto ciò che pensavo e lui si era convinto che io mi fossi dimenticata di tutto: il mio vissuto insieme a lui, le mie capacità di comprendere e di saper scrivere, leg­gere, far di conto. Trovava conferma di ciò nel vedermi impacciata ad espri­mermi o mentre facevo i “compiti assegnatimi per casa” in cui io producevo molti errori. Così sentivo sempre di più che si allontanava da me e io ne sof­frivo moltissimo, ma non potevo fare niente.

Finalmente una grande soddisfazione: potevo di nuovo camminare da sola con il tripode. Erano trascorsi sei mesi. Ho iniziato a uscire con Elisa. Mi muovevo lentamente e attraversare le strade era un dramma. Temevo per Elisa che mi stava a fianco perché non potevo proteggerla come prima. Le automobili sfrecciavano senza darmi spazio e avevo tanta paura. Facevo fatica a calcolare le distanze.

Comunicare con gli altri era difficilissimo perché non mi davano spazio, tempo per esprimermi. Volevano aiutarmi e dicevano tutto loro, io non riuscivo a inserirmi nei discorsi. Con le persone che incontravo mi sentivo più o meno a mio agio: stavo bene con quelle che mi ascoltavano, lascian­domi il tempo per esprimermi. Ricordo una cara signora che mi incorag­giava dicendomi: “Stia tranquilla! La ascolto con calma!”. In queste situazioni io potevo dire quello che volevo ed ero proprio soddisfatta!

Passati due anni dalla malattia, decido di voler di nuovo guidare la mac­china per essere più autonoma e veloce, soprattutto per la mia bambina. Così ho rifatto la patente in un battibaleno. Mi sono comperata l’auto nuova con i comandi speciali e da quel momento ho ripreso a vivere!

Altro traguardo è stato quello di voler imparare a usare il computer che mi permette di scrivere, leggere e fra l’altro è un attento correttore dei miei eventuali errori.

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