Testimonianza di Federica

23 APRILE 2002

Quel martedì mattina mi sono alzata pensando che fosse una giornata e un inizio di settimana lavorativa come tutte le altre, se non addirittura migliore delle altre, visto la festività infrasettimanale: infatti, avevo programmato di festeggiare il 25 aprile e non vedevo l’ora che quella giornata arrivasse. Sono salita in macchina e ho raggiunto la casa dei miei genitori e di mia sorella per poi recarmi al lavoro. In cucina, su un mobile, ho visto la bolletta del telefono e mi sono ricordata che la dovevo pagare così ho chiesto a mia sorella quale ne fosse l’importo. Questa è stata l’ultima frase che io sono riuscita a dire, poi più nulla.

Mia sorella si è accorta che c’era qualcosa di strano in me, mi ha chiesto cosa stesse succedendo, ma io non dicevo nulla, stavo seduta senza parlare. Ha chiamato mia madre che era nella stanza accanto e non capendo che cosa fare ha telefonato al 118, il quale ha inviato un’ambulanza.

Mentre i miei familiari si stavano allarmando sempre più, io invece guardavo tutta la scena pensando quanto loro fossero esagerati. Mi chiedevo: “cosa c’è di strano? Semplicemente non ho voglia di parlare, me ne sto bene in silenzio”.

Arrivata l’ambulanza, i medici decidono di ricoverarmi al pronto soccorso, io non lo volevo, non era necessario secondo me. Tuttavia mi lascio trasportare in barella convinta che non si trattasse di nulla di grave. Mi dico: “Dopo alcune ore io tornerà a casa, ne sono sicura. “

Durante il tragitto dell’ambulanza, l’infermiera comincia a parlarmi, a chiedere tante cose di me, ma io non parlo, non ne ho voglia, annuisco solamente. Penso: “Che strana giornata, dovevo andare a lavorare e invece sono qui in ambulanza”.

L’infermiera sfoglia gli esiti da alcuni controlli da me effettuati e si accorge che due anni fa ho eseguito una risonanza magnetica encefalica, e me ne chiede il motivo. Volevo spiegarglielo, volevo dirle che avevo un appuntamento per metà giugno per una risonanza di controllo ma non ci riesco, io so quello che voglio chiederle, apro la bocca per parlare ma le parole non escono, riesco solo a portare la mano destra sulla testa battendo con un movimento continuo per farle capire che mi hanno riscontrato una cisti in testa ma lei non capisce. “E’ inutile – mi dico – è meglio stare ferma e aspettare di giungere al pronto soccorso”.

Una volta arrivataall’ospedale di S. Daniele un medico mi fa alcune domande ma io non rispondo, non ne ho voglia, poi mi fanno una Tac e nell’attesa dell’esito mi lasciano da sola. Mi domando che cosa mi stia succedendo anche se continuo a sperare ancora di ritornare a casa nel giro di qualche ora. Decido di provare a parlare per far capire a tutti che io sto bene e che non ho niente.

Cerco nella mia mente alcune parole ma riesco a trovare solo FEDERICA e ALBERO e in più riesco a dirle solo con gran difficoltà. Cerco qualche altra parola ma non me ne viene in mente nessuna, possibile che di tutti i vocaboli mi ricordi solo albero e il mio nome? E il mio cognome qual è? Non lo ricordo e così continuo a ripetere FEDERICA e ALBERO.

Quando il medico ritorna nella sala in cui mi trovo non gli dico niente del fatto di aver provato a parlare, mi comunica che mi trasferiranno con un’ambulanza all’ospedale di Udine. Esce in corridoio e parla con altri medici, li vedo attraverso la porta aperta ma non riesco a sentire quello che stanno dicendo, non mi dicono nulla di quello che mi è accaduto. Adesso comincio ad avere un po’ di paura. “Tutto bene?”, mi dice l’infermiere durante il tragitto dell’ambulanza. Tutto bene vorrei poter dire ma riesco solo ad annuire.

Arrivata all’ospedale di Udine mi accompagnano sempre in barella e mi portano nel corridoio del reparto di Neurologia (così saprò in seguito). Dopo alcuni minuti si avvicina quello che diventerà il mio medico, mi fa qualche domanda, mi chiede che cosa è successo. “Me lo dica lei”, vorrei riuscire a dire. Mi portano in una saletta e mi dicono di aspettare. Che cosa devo aspettare? lo voglio tornare a casa!

Siedo accanto a mia madre, ho un brutto presentimento, lei non mi dice niente ma io ha paura che mi ricovereranno. Comincio ad agitarmi, voglio parlare, voglio dire che io non ci sto qui dentro, ma come fare a farmi capire? Non smetto di agitarmi, di muovere le mani, “qualcuno capirà cosa voglio dire”, penso, mentre i miei familiari mi dicono di stare tranquilla ma non posso farlo, mi metto a piangere, non riesco neanche a dire FEDERICA e ALBERO come facevo questa mattina. Devo continuare a usare un fazzoletto, non solo perché sto piangendo, ma perché inizio a sbavare.

Mi portano in reparto, ecco il mio letto, è il numero 3. “E’ finita, mi hanno ricoverata!” mi dico. Non mi agito più, tanto non c’è più nulla da fare.

Nella stanza ci sono due signore giovani e un’anziana, circa 80 anni, che non riesce a muoversi. Una di quelle giovani si avvicina al mio letto e mi racconta della sua malattia. Anche lei non riusciva a parlare, non c’è riuscita per un giorno. Subito io mi rincuoro, mi dico: ‘Allora domani io parlerò”. Arriva un’altra persona ricoverata, all’inizio pensavo fosse normale, poi ad un certo punto comincia a lamentarsi, vuole la televisione in camera perché lei vuole vedere “Incantesimo”. Poi chiede a mia sorella di poter usare cellulare, lei glielo presta così comincia a telefonare a non so chi per lamentarsi della televisione che non c’era e non smette più di parlare. Ad un certo punto faccio segno a mia sorella di chiudere il telefono e così lei cerca di farselo dare indietro. Ho l’impressione che non sia tutta a posto con la testa! Ormai è sera, prima di dormire mi fanno una flebo, però non mi dicono a cosa serva, infatti, ancora oggi non so per quale motivo me le abbiano fatte, lo non posso parlare, e quindi non posso fare domande.

Durante la notte la signora accanto a me, quella che voleva la televisione, comincia a dare di matto, comincia a bestemmiare, a urlare tanto che le infermiere sono costrette a farle cambiare stanza perché qui non si riesce a dormire.

2° GIORNO

Mi sveglio presto, non sono mai stata in ospedale, quindi non so quali siano le abitudini e gli orari da rispettare. L’altra signora ricoverata aveva detto che dopo un giorno aveva ripreso a parlare e così vado in bagno e ci provo anch’io, ma niente. Ritorno a letto e così comincia la trafila mattutina che ben presto imparerò: la pressione, il termometro, le flebo. Sulle braccia mi ritrovo un sacco di ematomi…

Colazione: “latte o tè?”, mi chiedono, ma io non so rispondere, cerco con i gesti di far capire che voglio latte. “Qualcos’altro? Fette biscottate, marmellata, panino, budino di frutta”, elencano velocemente, io dico di no con la testa, è troppo complicato cercare di spiegare a gesti, quindi non ci provo nemmeno, e così non ricevo la marmellata e le fette biscottate che desideravo.

Ho qualche difficoltà a bere il latte, mi sporco la bocca e tutto il latte gocciola sul piatto, per fortuna me lo hanno dato altrimenti avrei fatto un macello. La signora di fronte al mio letto si avvicina e cerca di consolarmi, ma cosa posso dirle io? Sto con gli occhi spalancati e annuisco. Arrivano i miei familiari, mia sorella ha deciso di chiudere il negozio e di rimanere con me, per fortuna la caposala fa uno strappo alla regola: la lascia stare accanto a me.

Inizia il giro dei dottori. Prendono la cartella marrone che imparerò a conoscere ben presto e che riempiranno con gli esami che farò. Ci sono due medici, parlano fra loro, non capisco cosa dicano, mi fanno stringere forte le mani, poi passano all’altro letto. La signora è dimessa. “Che fortuna”, mi dico.

Mi portano ad eseguire un elettroencefalogramma, il medico comincia a farmi delle domande su cosa mi è successo. IO NON PARLO!! Non lo capisce?

Per fortuna c’è mia sorella e così può spiegare un po’ lei. Ritornata in stanza, cerco di far capire a mia sorella che voglio telefonare a Gianni, non è facile, ma alla fine ce la faccio. Mi chiede quale sia il numero. Non lo so, non mi viene in mente, non ho neanche il cellulare e quindi non ho proprio idea del numero. Lo cerca sull’elenco. Mi chiede: “Cosa devo dirgli?”. Cerco di farle capire a gesti di chiamarlo. Lo chiama e gli spiega che sono in ospedale e che non parlo. Verrà a trovarmi il pomeriggio. Alle 12 si pranza: minestrina. Per secondo l’infermiera mi fa un lungo elenco di quello che voglio. Dico di no con la testa, non ho fame ma soprattutto ho difficoltà a deglutire, devo continuamente pulirmi con il fazzoletto.

Verso le ore 14 arriva Gianni, mi metto a piangere, ma lui non vuole che io pianga. Mi porta una lavagnetta per tentare di scrivere e me la lascia sul comodino. Cerco di fargli capire che per domani, 25 aprile, avevo prenotato il ristorante per noi due. Lui crede di aver capito, ma in seguito saprò che in realtà sbaglierà il nome del ristorante e non riuscirà a disdire la prenotazione. Tornerà a trovarmi questa sera, lo continuo a stare nel letto con accanto mia sorella, non ho l’orologio e ogni cinque minuti le prendo il polso per capire che ora sia. Lei è molto paziente e ogni volta mi dice l’orario.

Mi chiede di provare a dormire, ma non ci riesco, io guardo tutto, voglio sapere tutto quello che sta accadendo. Mi portano a fare l’elettrocardiogramma e poi più tardi un altro esame. Non mi dicono di cosa si tratti e non lo dicono nemmeno a mia sorella, ci accompagnano nel sotterraneo e l’infermiera dice: “Aspettate qui”, e se ne va. Penso di capire di dover fare dei raggi. “Ma cosa centrano con me?” mi domando. Dopo venti minuti esce una dottoressa, mi dice di togliermi i vestiti, mentre lei va in un’altra stanza, lo eseguo e vorrei avvertirla che sono pronta ma non riesco a parlare. Finalmente ritorna da me. “Si metta lì”, mi dice, lo vado verso un macchinario pensando che fosse quello che lei voleva, sbaglio. “Non lì, qua” mi dice in modo un po’ sgarbato, lo non lo sapevo dove dovermi mettere, anche perché nessuno mi aveva detto che raggi dovevo fare. “Si può rivestire”, mi dice, e mi lascia sola, lo mi rivesto e aspetto, sicuramente mi dirà se posso andare o no. Niente. Cosa debbo fare? Non posso parlare e quindi chiederle qualcosa, continuo ad aspettarla. A un certo punto decido di aprire la porta e andarmene. Lei non mi calcola? E allora io me ne vado!

Ritorno nella stanza con mia sorella. Arriva un’altra paziente. Lei mi sembra abbastanza giovane. Si tratta di Laura, quella che diventerà la mia amica.

Il tempo non scorre mai, mia sorella cerca di appoggiare la testa sul mio cuscino, probabilmente è stanca. Mi dice di dormire ma io non ho sonno. Ogni tanto la guardo e mi accorgo che i suoi occhi sono velati di pianto: probabilmente non riesce a credere di vedermi in queste condizioni.

Arriva il medico e mi fa firmare l’autorizzazione per la richiesta per la risonanza magnetica che farò venerdì. Con grande sforzo riesco a scrivere, anche se male, il mio nome. Per me è una gran soddisfazione. Di nuovo a cena, solita minestrina imboccata da mia sorella. Arrivano i miei genitori e i miei zii, cercano di capirmi ma non sono bravi come mia sorella; non riescono a intuire quello che voglio. Anche loro hanno la stessa idea di Gianni e mi danno in mano una penna e un bloknotes. Inizio a scrivere velocemente e mi accorgo di fare fatica a eseguire i movimenti della scrittura, convinta però di scrivere correttamente. Rileggo la prima frase per continuare il discorso, mi sembra tutto giusto, continuo a scrivere. I miei ad un certo punto mi fermano e mi tolgono di mano la penna e la carta. Mi rendo conto che loro non hanno capito ciò che ho scritto; ma la causa di ciò è loro, non mia; io penso di avere scritto bene! (invece avevo scritto parole incomprensibili).

Stanno un po’ con me, poi se ne vanno. Verso le 20 ritorna Gianni, vorrei chiedergli se gli è piaciuto il mazzo di fiori che gli ho mandato per il nostro anniversario; inizio a scrivere e lui zitto. Ad un certo punto voglio aiutarlo con un disegno, lui dice “fiori?”, “Finalmente!” penso io. Entusiasta faccio sul bloknotes un quadrato, che secondo me doveva essere il negozio di fiori, un altro quadrato che doveva essere casa sua e li unisco con una riga per far capire che il fioraio avrebbe dovuto consegnare il mazzo di fiori a casa sua. Non ci capiamo, io continuo a fare lo stesso disegno comincio ad agitarmi e così pur di farmi stare tranquilla lui mi dice che ha capito e io ci casco! Sono contenta. Tornato a casa trova il mazzo di fiori e in quel momento capisce finalmente cosa io cercavo di comunicargli. Trascorro la mia seconda notte in ospedale. Verso mezzanotte mi svegliano perché devo fare la flebo e poi sveglia di nuovo: la flebo è finita.

3° GIORNO

Mi sveglio e inizio a salutare con la mano destra Laura per augurarle buongiorno; questa sarà l’abitudine che avremo ogni giorno, anche quando io inizierò di nuovo a parlare. Il gesto mi è diventato talmente familiare che ancora oggi io continuo a salutare così. Oggi è una giornata festiva, non ci sono né medici né esami da effettuare, quindi è tutto più tranquillo. Al pomeriggio, mia sorella mi avverte che verrà a trovarmi Tamara (lei è una ragazza che ci aiuta in negozio quando c’è più lavoro e che verrà anche durante il mio ricovero).

Verso le 17 arrivano Tamara e il suo fidanzato, lo subito prendo penna e foglio, voglio scrivere così mi sembra di partecipare alla conversazione. Inizio a scrivere il nome di Tamara e quello di Elisa (sua sorella), vorrei scrivere il nome di Alessandro (il suo ragazzo), ma non mi viene in mente, e sì che lo conosco bene! Cerco di far capire a Tamara che non so il nome e allora lei me lo dice. “E’ vero, ora me lo ricordo” penso. Cerco di scriverlo e lei mi corregge gli errori. Iniziano a parlare insieme a mia sorella, voglio partecipare anch’io, quindi richiamo l’attenzione toccando il braccio di Tamara e mi metto di nuovo a scrivere il suo nome, quello di sua sorella…e il suo ragazzo? Me lo hanno detto un attimo prima, non me lo ricordo più!! Lei me lo dice di nuovo. Verso le 20 arrivano i miei genitori e io subito prendo la penna e scrivo i nomi di Tamara, Elisa e Alessandro. Sono molto orgogliosa di essere riuscita a scriverli e a ricordarli. Addito i nomi scritti e poi indico le persone a cui i nomi si riferiscono. Mi preme far capire che io capisco, non sono diventata stupida perché non parlo! Durante tutta la conversazione io continuo a indicare le persone e poi i nomi con molta soddisfazione. Dopo un po’ se ne vanno.

Arriva Gianni, mi porta il bigliettino che accompagnava il mazzo di fiori spediti da me e mi dice che entrando in casa ha capito quello che io a fatica cercavo di dirgli! Mi dice che sono belli e grandi. Sono contenta, lui sta vicino a me e io spesso gli rimostro il bigliettino per sentirmi dire da lui che i fiori sono belli, sono alti così. Evidentemente io perseveravo. E’ tardi e Gianni mi saluta, devo dormire. Domani sarà un giorno importante, mi sottoporranno alla risonanza magnetica.

4° GIORNO

Oggi a digiuno. Spero che mi facciano presto l’esame, ma invece mi dicono che devo aspettare fino al pomeriggio tardi.

Giro dei dottori. Sono emozionata perché questa mattina, facendo le prove in bagno, ero riuscita a pronunciare il mio nome: li aspettavo con ansia per dirglielo! Mi chiedono: “Come stai?”, lo sorrido, annuisco per far capire che ho sentito la loro domanda, ma rispondo dicendo “Federica”, l’unica parola che riesco a dire. Non fanno caso alla mia prima parola detta! Non mi dicono niente! lo resto malissimo. Continuano a chiedere: “ti senti meglio?”, io ripeto “Federica”. Parlano tra loro dicendo che non ragiono, non capisco le domande. Non è vero, io capisco tutto, mi esce solo il mio nome, posso usare solo quello e a qualsiasi domanda dico “Federica”. Capisco che è inutile cercare di comunicare con loro, non mi ascoltano. Oggi doppio giro, c’è il Primario. Stessa storia, a tutte le domande io rispondo “Federica”, anche il Primario si convince che non ragiono.

Il tempo non passa mai, mia madre è in corridoio, io mi metto a piangere. Laura cerca di consolarmi e di capire cosa c’è che non va. Non lo so neanche io, ho solo voglia di piangere. Esco in corridoio e ricomincio a piangere. Forse è l’attesa snervante della risonanza magnetica, non vedo l’ora di eseguire l’esame perché sono convinta che, una volta saputo cosa mi è accaduto, ricomincerò a parlare…

Nel frattempo è arrivata anche mia sorella e tutte e due siedono accanto al mio letto e aspettano con me. lo non ho voglia di scrivere, guardo continuamente l’orologio. Arriva accanto a me un’altra paziente, è una signora anziana. Prendo la vestaglia e velocemente vado in soggiorno, non voglio più stare lì, voglio andarmene, ci sono tutte persone anziane e io non centro con loro.

Per fortuna dopo mezz’ora l’infermiera viene ad avvisarmi che devo fare l’esame. M’incammino velocemente desiderosa di sottopormi al più presto a quest’esame, lo sono contenta, una volta avuta la risposta potrò guarire! Aspetto quasi un’ora. Ogni tanto faccio vedere a mia sorella lo scorrere delle lancette sull’orologio per farle capire se domani potrò avere una risposta. Lei è bravissima e capisce cosa voglio, mi dice che spera proprio che entro domani si sappia cosa mi è successo. Finalmente è il mio turno. Mia sorella si preoccupa di far sapere all’infermiera che io non parlo. Non è la prima volta che eseguo la risonanza, quindi non mi preoccupo. Terminato l’esame vengo a sapere che per domani, sabato, non avrò la risposta. Resto molto delusa, riprendo a piangere, non riesco a smettere. Laura mi chiede come è andata e io di nuovo scoppio in lacrime. Come ogni sera arriva Gianni e cerca di consolarmi. E’ stata proprio una brutta giornata!

5° GIORNO

Nonostante mi abbiano detto che oggi non saprò l’esito della risonanza, aspetto con ansia. Con grande sorpresa, insieme agli altri medici, vedo arrivare anche la dottoressa che mi aveva visitato due anni prima quando avevo effettuato due risonanze. Le fanno notare che dalla mia cartella clinica risulta che mi ha visitato, ma lei non si ricorda di me. Per sua fortuna io non riesco a parlare! Due anni fa mi aveva detto che la cisti era congenita e quindi non era pericolosa; che le vertigini e gli svenimenti che io spesso avevo erano causate da un’intossicazione virale e che la mano sinistra che tremava era sì causata dalla cisti, ma che non sarebbe migliorata: “Così è… così resta”. Forse se lei fosse stata più competente io non sarei qui ora in questo ospedale!

Più tardi arriva mia madre, perché mia sorella è ritornata al lavoro. Prendo la lavagnetta e comincio a scrivere, prima il mio nome, poi i nomi di tutti i parenti che mi ricordo, ma mi accorgo che non so il nome di mio padre. A volte faccio qualche errore e mia madre mi corregge. Riesco anche a ricordare il nome dei nonni che non ci sono più, ma il nome di mio padre, niente! Vorrei chiedere a mia madre se ha bagnato i miei fiori sulla terrazza ma non riesco a trovare le parole. Ci penso più volte, ma niente, allora faccio un disegno di un balcone e di qualche fiore, così lei capisce. Riescoanche a scrivere il mio indirizzo e il nome del mio negozio. Sono proprio contenta. Alle 13 arriva il medico e mi dice che conosce l’esito della risonanza. Sono felice. La cisti non c’è più, si è cicatrizzata, non si vede niente. Dovrò fare un altro esame: l’angiografia. Chiedo quando dovrò farla, mi risponde: “Fra sei giorni “. Mi rassegno a non sapere ancoranulla del mio problema. Alle 14 arrivano mia sorella e mia zia. Subito vado in soggiorno e porto carta e penna, voglio far vedere i miei progressi nello scrivere. Mia sorella mi porta i saluti dei clienti, vuole raccontarmi cosa succede in negozio, ma a me ciò non importa; io devo scrivere, devo ricordare i nomi delle persone, delle cose: non so ancora il nome di mio padre! Il pomeriggio lo trascorro con mia zia, lei, per farmi passare il tempo, mi aveva portato delle riviste, lo le sfoglio, guardo le foto e leggo i titoli, però, quando cerco di leggere qualche articolo, mi stanco subito, ho problemi a concentrarmi e a seguire il filo del discorso. Come ogni sera arriva Gianni.

6° GIORNO

Oggi è domenica, è tutto più calmo. Arrivano mia sorella e mia madre. Resta con me mia sorella. Prendo in mano il mio solito foglio per comunicare; mia sorella, per prendermi in giro del fatto che non ho niente da fare, mi scrive: “Mangio, dormo, ricevo visite”. Allora io inizio a leggere le tre parole a voce alta e mi sento. Non mi fermo più, inizio a scrivere tutti i nomi che conosco e poi li leggo. Sono contenta, a tutte le infermiere, alla ragazza delle pulizie e alle pazienti dico: “lo parlo!”. Voglio scrivere un biglietto ai miei zii e a mia madre, faccio un po’ di difficoltà, scrivo delle parole che non c’entrano con il discorso e altre le ripeto due volte ma è per me un modo per far capire che sono guarita. Telefoniamo a mia madre, mia sorella la avverte che io ho iniziato a parlare, lei si emoziona, non ci crede così mia sorella mi passail telefono e io le dico: “lo parlo”.

Nel tardo pomeriggio arriva mia cugina e il suo ragazzo, finalmente posso partecipare anch’io alla conversazione e non ascoltare soltanto. Decidiamo di fare uno scherzo, quando arriveranno i miei genitori io starò zitta e loro diranno che di nuovo non riesco più a parlare. Arrivano, io taccio, ma loro dicono di essere già contenti perché ho comunque iniziato a parlare, sarò stancaDopo qualche minuto, decido di finire lo scherzo e dico: “Non è vero! lo parlo”. Vorrei fare lo stesso scherzo anche a Gianni, ma entra nella stanza mentre io parlo e così niente scherzo. Anche lui è molto contento, è più tranquillo. Anche i parenti delle altre pazienti si stupiscono e si congratulano con me. “Sì, io parlo” continuo a dire.

7° GIORNO

Il giorno dopo, appena mi sveglio, ho paura di non riuscire a parlare, ci provo e subito la mia paura svanisce. Non vedo l’ora di dirlo al medico. Arrivato accanto al letto gli dico: “Buongiorno”. Lui si meraviglia e scherzando mi chiede come ho fatto a parlare, forseho preso una botta in testa? Si vede che anche lui è molto contento che io stia migliorando, mi dice che più ci impiegavo a parlare e più lungo sarebbe stato il mio recupero. Mi suggerisce di ascoltare della musica e, se ne ho voglia, di guardare la televisione. I giorni trascorrono lentamente, ormai parlo, non mi serve più che qualcuno mi stia accanto, verranno a trovarmi solamente la sera.

Passo il tempo parlando con Laura, a volte non mi vengono in mente le parole, ho un vuoto, ma lei mi dice di non preoccuparmi, tanto qua dentro quello che non ci manca è proprio il tempo. Ha moltapazienza, aspetta che io cerchi la parola.

Chiedo ai miei familiari di portarmi un libro così potrò leggere e far passare il tempo. Inizio il libro, ma ogni due o tre frasi devo rileggere tutto perché non mi ricordo più cosa ho letto precedentemente. Non riesco a concentrarmi, per leggere una facciata ci metto almeno una mezz’ora. Per me è troppo faticoso e così lascerò il libro sempre chiuso sul comodino.

Mi avvilisco un po’. Ho sempre letto molto, posso in un giorno leggere anche un intero romanzo; ora una pagina intera è già troppo per me, mi stanco e mi preoccupo di non riuscire a leggere come prima. Mi portano TOPOLINO” perché ci sono molti disegni, le frasi sono brevi, ma anche qui per me è troppo difficile, leggo le parole ma non riesco a seguire la storia, ci impiego troppo tempo per capire tutto e mi stanco. Quindi non va bene nemmeno quello. Decido di farmi portare le parole incrociate, di solito io faccio quelle più complicate che richiedono un ragionamento. Provo con quelle facili ma riesco a risolvere solo poche definizioni, le capisco e so anche la risposta, ma non mi viene in mente il nome da inserire nelle caselle. Ho un vuoto nellatesta… non riesco a tradurre il mio pensiero in parole. Non va bene neanche con le parole incrociate… rinuncio a farle!

Ho paura che non tornerò normale come prima, mi sento stupida e non voglio esserlo.

Le giornate scorrono come il solito in attesa de! prossimo esame. I medici mi informano che mi metteranno in contatto con una logopedista per aiutarmi nel linguaggio, ma io non vedo nessuno. Cosa aspettano a darmi un appuntamento? lo voglio migliorare.

Intanto, dato che riesco di nuovo a parlare, mi riportano il mio cellulare. Mi accorgo che la batteria sta per scaricarsi, quindi cerco di mandare un messaggio a mia sorella per farmi portare il caricabatteria. Cerco di scrivere il messaggio ma non ci riesco, non riesco a sapere quale lettera devo schiacciare. Allora provo prima a scrivere sul foglio per sapere la successione esatta delle lettere. Mi sforzo per una mezz’ora, ma niente. Sembra strano ma non riesco a scrivere le lettere giuste. Inoltre quando telefono continuo a chiudere la comunicazione con il tasto rosso. Faccio confusione nel premere i tasti. Mi fanno notare che uso parole sbagliate: per esempio invece di dire “aperto”, dico “chiuso”, invece di dire “domani”, dico “ieri” eccetera.

I medici continuano a farmi fare altri esami per capire la causa della malattia, lo sono stufa, non ne posso più di altri esami. Vorrei andare a casa, sono già trascorsi 15 giorni dal mio ricovero. Arriva la logopedista: è una ragazza giovane, mi chiede di fare dei test. Cerco di fare del mio meglio, ma il “test dei gettoni” non mi riesce bene perché è troppo complicato, non riesco a ricordare le frasi che mi dice. Gli altri due test sono più semplici, spero di averli fatti abbastanza correttamente.

8° GIORNO

Finalmente mi dimettono! Sono felice. Nella lettera di dimissione leggo di aver avuto un’ischemia cerebrale. È la prima volta che ne vengo a conoscenza. Cos’è un’ischemia cerebrale? Vado a leggermela nell’enciclopedia…

Inizierò la terapia logopedica da esterna.

RITORNO A CASA

lo abito da sola, i miei genitori desiderano portarmi a casa loro, saranno più tranquilli sapendomi lì e io potrò riprendermi.

Il 14 maggio la logopedista che avevo già conosciuto mi presenta a una sua collega. Racconto cosa mi è accaduto; legge la mia cartella clinica, mi dice che sono “afasica” e mi spiega cosa significhi.

La mia malattia ha comportato la difficoltà a tradurre il pensiero in parola. Non riesco più ad usare il linguaggio come prima. In effetti, continuo a ragionare come il solito, capisco tutto, penso normalmente, il problema si presenta solo quando cerco di spiegare a voce i miei pensieri. Fino a questo momento non mi rendevo conto che il pensiero è una cosa e la parola è un’altra. Sembrava trattarsi di un’unica cosa: parlo e basta! Ora non è come prima, molte volte le parole non mi vengono in mente, mi sembra di avere in testa un vuoto assoluto; altre volte credo di parlare correttamente, ma le parole mi escono sbagliate senza accorgermi, ma ormai è troppo tardi per correggermi. Questo è un problema perché la vita normalmente si svolge a contatto con la gente, tutti i giorni è un continuo dialogare, ma se da un momento all’altro qualcuno non è più in grado di farlo come prima si sentirà anormale. Ed è quello che è accaduto anche a me. Durante tutta la degenza in ospedale, i medici si sono preoccupati giustamente del mio fisico, ma nessuno in questi 17 giorni ha cercato di spiegarmi quello che è accaduto nella mia mente, per quale motivo mi sono trovata ad affrontare queste difficoltà.

Il non sapere ti terrorizza ed è proprio quello che non dovrebbe mai accadere. L’informazione è importante. Si devono dare risposte a tutte le domande che la persona afasica si pone, che sono tantissime, bisogna dare all’afasico consapevolezza di quello che accade, toglierlo dal disagio, questo rende, per quanto possibile, più tranquilli.

Ascoltando la logopedista sono riuscita a capire molte cose, tutto quello che mi sta dicendo l’ho veramente vissuto su me stessa. Sembra quasi che abbia avuto la mia stessa esperienza. Tutto il resto della gente accanto a me non riesce a capire, si ferma solo all’apparenza: io non riesco a parlare come prima e quindi giungono alla conclusione che ho dei problemi. Li spiegano però come una mia incapacità di vispezza, mi considerano un po’ tonta, non capiscono che è solo un problema di linguaggio. Non posso biasimarli, io stessa, prima della mia malattia, mi sarei comportata così; soltanto chi prova sulla propria pelle si rende conto del disagio: che è enorme!

Sarebbe importante riuscire a pensare in positivo, le difficoltà di parola ci sono, sono innegabili, l’ischemia avrebbe potuto avere conseguenze più gravi, quello che mi è accaduto è accaduto, non devo pensare troppo a ciò che le altre persone possono dire di me. Non è facile, però dopo questa chiacchierata mi sento tranquillizzata. Forse ho incontrato la persona che può comprendere il mio problema e cercare di aiutarmi. Inizio così a lavorare con lei.

Gli errori che frequentemente commetto sono quelli di scambiare il soggetto con il complemento oggetto o di non riuscire a concentrarmi. Molte volte non mi accorgo di sbagliare, avvertita dell’errore devo trovare la soluzione da sola, passo a passo.

Tutto questo non è semplice, ci vuole molto tempo, devo pensare, trovare le parole giuste. In tutto questo lavoro la logopedista mi è accanto e sembra un tutt’uno con me. Basta un’espressione del suo viso e mi mette in guardia! Con lei le parole non servono: ci si capisce anche senza parlare.

La persona afasica, avendo difficoltà ad usare il linguaggio è molto più attenta a recepire le altre modalità comunicative che si accompagnano alla parola quali l’espressione del viso, il tono della voce, l’umore, la gestualità. Diventa importante tutto il contesto, non solamente la parola detta. Probabilmente questo avviene istintivamente, quasi a supplire la mancanza di qualcosa. Nel nostro caso è la mancanza di parola. Nelle persone cieche, alle quali viene a mancare la vista, si acutizzano gli altri sensi; è quasi una specie di compensazione.

Inoltre le persone afasiche diventano più sensibili forse perché l’esperienza subita fa riflettere e quindi quello che a cui prima non si badava, ora diventa più importante. Ricordo che di fronte alle difficoltà di qualcuno io reagivo in modo diverso, ero meno comprensiva, sorvolavo sui problemi altrui. Ora quello che è superfluo lo elimino subito, non mi interessa più, mi sembra di riuscire meglio a distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è.

Ritornando alle mie difficoltà di parola, alle volte sono talmente convinta di aver detto bene, che per trovare l’errore segnalatomi, devo scrivere la frase detta, così solo rileggendola riesco a capire dove ho sbagliato.

Mi manca elasticità mentale, il passare improvvisamente da un discorso all’altro mi crea problemi, mi sento invischiata. Parlando, mi rendo conto che spesso, appena detta una frase, subito dopo la ripeto per assicurarmi di averla detta giusta. Ritengo che tutto questo sia causato dal fatto che, mentre prima io pensavo, dicevo, controllavo ciò che mi usciva in un attimo, ora invece queste tre fasi sono divise tra loro; ripetendo mi sembra di poterle riunire.

Un altro problema che mi pesa sono le interferenze continue delle persone che stanno parlando con me, quando mi vedono in difficoltà, mi suggeriscono la parola, ma in questo modo invece di aiutarmi, mi ingarbugliano ancora di più, tanto che rinuncio a parlare. È per questo che ai miei familiari ho chiesto di non suggerirmi e di lasciarmi il tempo per dire.

Quando leggo mi sembra di comprendere bene tutto ciò che è scritto. Nel momento in cui devo raccontare a un’altra persona il contenuto letto, faccio molta fatica a spiegarlo con linearità; alcuni particolari importanti li tralascio, gli aggettivi non mi vengono in mente. Quindi il racconto diventa prolisso, faticoso. Per far capire all’altro mi dilungo in spiegazioni non necessarie, mentre, quelle che sarebbero utili, le trascuro.

Fin dal momento della degenza in ospedale, temevo di non poter riprendere la vita di prima: infatti, oltre alle difficoltà di lettura e di scrittura già conosciute, mi sono preoccupata di non riuscire a comunicare come il solito con le altre persone, soprattutto con quelle che non erano a conoscenza del mio problema. Quindi durante il primo periodo non lavoravo e successivamente lo facevo evitando di parlare con i clienti, non telefonavo mai, perché per me era troppo difficile, ed evitavo di chiedere informazioni.

All’inizio è stato difficile, tutto era cambiato da un momento all’altro. Per fortuna con l’aiuto della logopedista che ha cercato di rendermi consapevole del disagio e di accettare le difficoltà senza perdere la fiducia in me stessa e anche con l’aiuto dei miei familiari, che hanno cercato di fare altrettanto, tutto è stato più facile.

Secondo me è molto importante cercare di continuare a vivere come il solito, senza farsi troppi problemi: accettandosi.

Un poco alla volta quindi ho ripreso a lavorare a tempo pieno; ovviamente ho avuto qualche difficoltà, mi sentivo un po’ impaurita soprattutto perché pensavo a cosa avrebbero detto di me. Conoscendo II mio carattere non è stato facile abituarmi al mio problema e a disinteressarmi del giudizio altrui.

Ho ripreso a chiedere informazioni. All’inizio mi rendevo conto che tutto era più lento, avevo molta difficoltà per cercare di farmi capire; se prima riuscivo a dire con poche parole quello che volevo, ora me ne occorrono di più, a volte mi accorgo che mi ripeto.

Tutto era difficilissimo per me, chiedevo agli altri d’avere pazienza, spiegando le mie difficoltà e mentre alcuni mi facevano stare a mio agio, altri non ci riuscivano.

Da questa esperienza ho capito molte cose riguardo alle persone: c’è chi è sensibile e capace di comprendere le difficoltà altrui; chi invece è più superficiale, non approfondisce, non va oltre all’apparenza e non ti considera. Per mia fortuna la maggior parte delle persone che ho incontrato sono state soprattutto le prime, anche perché alle seconde non bado molto: infatti, sono diventata più selettiva riguardo alla gente.

A causa delle mie difficoltà ho dovuto tirar fuori altri aspetti del mio carattere: la pazienza, che non è mai stata la mia qualità maggiore, l’ho per forza riscoperta; non mi faccio troppi problemi su quello che possono dire di me, non è facile agire in questo modo, ma sono convinta che il comportarmi così sia necessario, altrimenti il disagio aumenta; ora do priorità a certi avvenimenti e distinguo fra quello che è importante e quello che non lo è.

In questo modo si ottiene di vivere meglio, più sereni. Tutto quello che prima mi faceva arrovellare oralscarto subito, mi rendo conto che è tempo perso.

Quello che invece si può cambiare è lo stile di vita: diventano diverse le priorità, quello che prima sembrava importante ora passain secondo piano.

Mi sono resa conto della labilità della vita.

Non avevo mai avuto problemi di salute, né avevo avuto occasione di assistere persone malate. Quindi la “malattia” non mi aveva mai sfiorata: non immaginavo che da un momento all’altro potesse mutare il vivere di prima. Ho dovuto abituarmi all’esperienza dell’ospedale e dei vari esami subiti, lo temevo perfino un’iniezione! Non so come sia riuscita a sopportare tutto!

Ho avuto paura di non ritornare come prima, di non avere più la vita di prima. Ho trascorso diversi anni a studiare, e per me era importante riuscire a raggiungere gli obiettivi che volevo, sono molto determinata. Nel momento del ricovero ospedaliero mi sono sentita persa, senza più alcun riferimento, in balia degli altri e la cosa mi spaventava. Con il tempo però, per fortuna, ho capito che il mio problema non era una limitazione della mia mente ma un’incapacità a usare il linguaggio, a esprimermi come prima: le mie capacità intellettive erano rimaste tali e quali. Ciò mi ha rassicurato sapendo d’altro canto che esistono sì delle difficoltà ma che so come superarle. Questa è un’esperienza che mi ha permesso di comprendere molte più cose. Durante la degenza in ospedale mi sono accorta della sofferenza di altre persone con difficoltà ben maggiori delle mie. Frequentando l’ospedale, per seguire la terapia logopedica, vengo a conoscere situazioni difficili; l’aver vissuto, se pur un periodo breve nell’ospedale, ti cambia: vieni a toccare con mano il dolore, la morte.

E’ naturale non pensare a questo quando si sta bene. Quando ti avvicini alla tua sofferenza e a quella degli altri, incominci a considerare le probabilità a cui puoi andare incontro. Così è accaduto anche a me e ho pensato di essere fortunata visto che ne sono uscita velocemente e con buoni risultati. Non tutti riescono a farcela. Basta guardarsi attorno per apprezzare molto di più quello che si ha. Non è facile, la vita è un ingranaggio tale fa farti dimenticare le cose che dovrebbero essere più importanti.

Nel momento in cui ti ammali, ti fermi e sei costretta a ripensare a tutto il tuo “correre” e ti chiedi: ma ne vale la pena?

Sicuramente la risposta è sempre negativa.

La società attuale però non ti aiuta a discernere e a evidenziare la vera scala dei valori della vita.

Con questo sono la prima a dire che non ci si deve privare di tutto, però quando una persona ha la propria famiglia, la casa e il lavoro, tutto il resto dovrebbe venire in secondo piano, in modo da saper gioire anche delle piccole cose.

Ed è da questa mia esperienza che vorrei ottenere questo, quindi riconoscere i lati positivi di tutta la mia vicenda.

Fra questi ce anche l’incontro con Elena, la mia logopedista. Non avevo mai avuto conoscenza del problema dell’afasia e quindi non avrei saputo come farmi aiutare e da chi. Per fortuna, attraverso l’ospedale, l’ho conosciuta.

Si capisce che le piace il suo lavoro, le piace di poter essere d’aiuto a molte persone. Durante questi mesi è riuscita a mettermi a mio agio, ho imparato molte cose grazie anche al suo carattere. La ringrazio. Sono proprio contenta d’averla incontrata: anche lei è uno degli aspetti positivi della mia esperienza.

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